di Stefano Poleschi, direttore Cia Livorno


È bene premetterlo subito. L’esplosione dei prezzi di produzione ha ulteriormente accentuato il divario tra costi colturali sostenuti ed il prezzo pagato all’impresa agricola, ma questa situazione è presente da tempo.

“Se l’azienda agricola fosse abituata a fare i conti effettivi imputando tra i costi di produzione tutte le voci, si accorgerebbe che anche colture per le quali ritiene di avere un margine, riserverebbero amare sorprese”. Lo afferma Antonio Monelli, orticoltore della Val di Cornia.

“L’agricoltore in genere è portato a non considerare tra i costi la remunerazione della propria manodopera e dei familiari ed i costi fissi aziendali, che sono una componente importante e comprendono gli ammortamenti, gli oneri previdenziali, le imposte e tasse. Oggi non può più permetterselo. Senza considerare – prosegue Monelli – che all’interno della filiera agricola la parte produttiva è l’anello debole della catena e i prezzi riconosciuti all’agricoltore sono sotto la soglia della sostenibilità economica. La Gdo (grande distribuzione) annulla i margini di guadagno del produttore. Anche questa per certi versi è una forma di sfruttamento del lavoro”.

In altri termini, l’agricoltore è abituato a remunerare sempre di meno la propria ora di lavoro e contava sull’aumento di valore che nel tempo il capitale fondiario assicurava, ma ora è saltato tutto. I conti non tornano più. Se si sorpassa un certo limite bisogna avere il coraggio di dire basta.

E la situazione è sotto gli occhi di tutti coloro che vogliono vedere. Le superficie investite a colture ortive, che richiedono maggiori investimenti in termini di mezzi tecnici e di manodopera, sono in progressiva riduzione nella fascia litoranea, a vantaggio di colture estensive come il cereale e le foraggere, quando non si arriva ad un vero e proprio abbandono delle coltivazioni.

Il rischio è quello di ripetersi, ma ci deve essere un modo per garantire al consumatore un prodotto di qualità, che consenta di riconoscere un giusto prezzo pagato al produttore ed agli altri componenti della filiera.

Cia è sempre stata dell’idea che si debba parlare di prezzo giusto non di prezzo più basso. Più volte abbiamo parlato della necessità della trasparenza dei prezzi. In quella direzione andava la proposta del doppio prezzo, anche nella consapevolezza della non semplicità della proposta stessa.

I consumi rischiano nuovamente una forte contrazione, anche se il settore agroalimentare è considerato da sempre anticiclico, causa il rincaro delle materie prime della logistica. Alcune catene della Gdo parlano di ribasso dei prezzi delle produzioni fresche, per andare incontro alle esigenze dei consumatori. Non è che ancora una volta, nonostante le affermazioni dei responsabili della Gdo, il taglio dei prezzi lo paghino ancora le imprese agricole? Perché così è stato fino ad ora.

È veramente impossibile stabilire un costo di produzione per le colture, aggiungere un ragionevole margine per il produttore e per la struttura associativa e/o cooperativa che si occupa di logistica e commercializzazione, perché oggi – salvo situazioni particolari – non possibile farne a meno. E questo diventa il prezzo pagato dalla Gdo?

Certo deve essere fatto sulla base di accordi, che hanno l’obiettivo di garantire un reddito certo alla produzione, un lavoro trasparente e legale, perché per decreto non è possibile garantire una marginalità, nonostante la recente Direttiva Ue 2019/633 sulle pratiche sleali.

Altrimenti si deve continuare ad affidarci alla fluttuazione libera dei prezzi, che è dato dall’incontro della domanda con l’offerta, con i risultati che tutti conosciamo e conseguente impoverimento dei territori, considerato l’enorme sbilanciamento a favore di alcuni componenti la filiera che sfruttano la loro posizione di forza e trattengono la marginalità.


Tratto da Dimensione Agricoltura n. 12/2021