La Corte costituzionale con la sentenza 148 del 25 luglio 2024 ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 230-bis, terzo comma, del Codice civile, nella parte in cui non prevede come familiare anche il “convivente di fatto” e come impresa familiare quella cui collabora anche quest’ultimo. In via consequenziale è stato inoltre dichiarato incostituzionale l’art 230-ter del Codice civile.

In sostanza, la Consulta ha stabilito che l’attuale disciplina dell’impresa familiare viola gli articoli 2, 3, 4, 35 e 36 della Costituzione là dove, al comma 3 dell’art. 230-bis c.c., non riconosce il ruolo di familiare (e tutte le conseguenze patrimoniali, assistenziali e decisionali che ne scaturiscono) al convivente more-uxorio del titolare dell’impresa che presta la propria opera all’interno dell’impresa familiare.

La Corte costituzionale ha quindi di fatto riscritto la definizione di impresa familiare equiparando la collaborazione del convivente more-uxorio a quella del coniuge. La decisione così come è stata formulata ha inoltre “travolto” (decretandone a sua volta l’incostituzionalità) l’articolo 230-ter del Codice civile, introdotto originariamente dalla Legge n. 76/2016 (c.d. ddl Cirinnà) per garantire delle tutele parziali al convivente di fatto che prestasse stabilmente la propria opera all’interno dell’impresa dell’altro convivente.

Le questioni di legittimità sono state sollevate nel corso di un giudizio introdotto da una donna nei confronti dei figli e coeredi dell’uomo con la quale ha stabilmente convissuto dal 2000 sino al decesso di quest’ultimo avvenuto nel novembre 2012 e avente ad oggetto la domanda di accertamento dell’esistenza di una impresa familiare, relativa ad una azienda agricola, e di condanna alla liquidazione della quota spettante quale partecipante all’impresa. La ricorrente ha sempre sostenuto che la convivenza, iniziata in altre località, era proseguita presso il fondo rustico acquistato dal defunto – acquisto al quale erano via via susseguite altre acquisizioni, la costruzione di una cantina per la produzione del vino nonché l’avviamento di un’attività di ricezione turistica – e di aver prestato attività lavorativa in modo continuativo nell’azienda del convivente dal 2004 (anno di iscrizione del registro delle imprese) fino al 2012. Fino alla sentenza della Corte costituzionale la legge riconosceva al convivente-collaboratore unicamente il diritto ad una partecipazione agli utili dell’impresa familiare, ai beni acquistati con essi e agli incrementi dell’azienda in maniera commisurata al lavoro prestato. Il convivente continuava ad essere altresì escluso a differenza degli altri familiari compartecipanti dall’adozione delle decisioni concernenti l’impiego degli utili e degli incrementi nonché quelle inerenti alla gestione straordinaria, agli indirizzi produttivi e alla cessazione dell’impresa stessa.

Questa differenza di trattamento viene meno in seguito all’importante pronuncia della Consulta. Anche alla luce di quanto trattato in questa sede è comunque importante ricordare che la disciplina dell’impresa familiare si applica unicamente alle imprese individuali. Il diritto di partecipazione non spetta qualora tra i conviventi esista un rapporto di società o di lavoro subordinato.


Tratto da Dimensione Agricoltura n. 9/2024